Uguale montepremi nei tornei maschili e femminili: sì o no?

“Uguale montepremi nei tornei maschili e femminili”. Bastano queste poche parole per generare un infinito turbinio di discussioni: l’argomento è stato dibattuto in base ai più diversi criteri: livelli di gioco, impegno, merito, numero di spettatori, spettacolo e chi più ne ha più ne metta.

La storia degli uguali guadagni tra i due sessi nei tornei, però, parte da lontano e ha un nome fondamentale da ricordare: Billie Jean King.

Oggi è conosciuta per i 39 titoli Slam tra singolare (12), doppio (16) e doppio misto (11), per la più celebre delle “battaglie dei sessi” con Bobby Riggs, ma c’è chi dimentica che è a lei che si devono due conquiste importanti della storia del tennis femminile: l’uguaglianza dei premi in un torneo dello Slam e la fondazione del circuito femminile noto come Virginia Slims, che sarebbe poi sfociato nella WTA una volta coinvolte anche le parti in causa europee.

Andiamo con ordine: la King già nel 1967, siccome la USTA pagava troppo poco le giocatrici per le trasferte e le iscrizioni ai tornei, definì quello stato delle cose “Shamateurism”, rincarando la dose con “in America, le giocatrici di tennis non sono persone. Se sei nel tennis, sei a metà tra un accattone e un parente acquisito”. Pochi anni dopo, con la fine delle distinzioni dilettanti-professionisti determinata dall’avvento dell’Era Open, vennero fuori in maniera prepotente altre imbarazzanti differenze: nel 1972, Margaret Court ricevette 15.000 dollari in meno di Ilie Nastase per la vittoria finale agli US Open. Questo, nonché l’abissale differenza tra i bonus corrisposti in caso di completamento del Grande Slam, portò la King a minacciare l’assenza da Forest Hills (che all’epoca ospitava il torneo) nel 1973 se non ci fossero state uguali condizioni di premi. Risultato: gli US Open da allora pagano in ugual misura i vincitori al maschile e al femminile, primo Slam ad averlo fatto. Per raggiungere tale obiettivo, il Roland Garros ha atteso fino al 2006, Wimbledon fino al 2007. Gli Australian Open hanno seguito una parabola particolare: nel 1987 e 1988 le donne hanno guadagnato più degli uomini, poi si è avuto un periodo di assestamento terminato nel 2001: da allora, i montepremi maschili e femminili sono uguali.

A più di quarant’anni di distanza dalle battaglie della King, possiamo verificare, grazie ai calendari 2017 ATP e WTA, com’è la situazione attuale. Il confronto è possibile su alcuni tornei combined, dove cioè giocano, negli stessi impianti, uomini e donne. In particolare, si può andare a verificare come stanno le cose in tornei di livello simile tra l’uno e l’altro sesso. Non consideriamo qui tornei di differente livello, per i quali il montepremi è diverso per forza di cose.

Si verifica facilmente che a Indian Wells e Miami, che al maschile sono Masters 1000 e al femminile Premier Mandatory, i montepremi sono esattamente uguali. A Madrid i maschi prendono pochi euro in più per primi e secondi turni delle qualificazioni e del tabellone principale, poi i premi si riallineano dagli ottavi in avanti.

In tutti gli altri tornei con simili caratteristiche, equiparando i Masters 1000 anche ai Premier 5, gli ATP 500 ai Premier e i 250 agli International, si delinea un quadro nel quale, in linea generale, il montepremi riservato alle donne è circa il 50-60% di quello riservato agli uomini. Un po’ di lavoro, dunque, dev’essere ancora fatto per arrivare alla parità completa dei montepremi di uomini e donne.

Ma cosa dicono sull’argomento i diretti interessati? Tra i maschi convivono le opinioni più varie e fanno più rumore le negative: molto scalpore ha destato, l’anno scorso, un’uscita di Novak Djokovic, che sosteneva che l’ATP dovesse chiedere premi più alti perché i maschi richiamano più pubblico, pur riconoscendo le battaglie delle donne per ottenere quanto meritato. La presa di posizione di Djokovic, fortemente criticata da Serena Williams, faceva eco a precedenti parole di Raymond Moore, allora direttore del torneo di Indian Wells: “Le donne dovrebbero inginocchiarsi e ringraziare Federer e Nadal per quello che hanno dato al tennis”. Per le polemiche su quest’affermazione, Moore si è dimesso dal suo ruolo.

Si basa su argomentazioni diverse la critica di Gilles Simon, che si è espresso contro la parità dei montepremi perché, nei tornei dello Slam, le donne stanno in campo per meno tempo, dal momento che loro giocano due set su tre mentre gli uomini ne giocano tre su cinque. La posizione di Simon è stata aspramente stigmatizzata da Marion Bartoli, che ha osservato come lo sforzo fisico, l’allenamento e gli investimenti siano sostanzialmente uguali per maschi e femmine. Inoltre, dato che Simon parlava di “finali di Roma con 20 spettatori” (dato comunque falso: negli anni pre-combined le finali offrivano comunque bei colpi d’occhio), l’ex giocatrice francese replicava osservando che anche alcuni match maschili si giocavano davanti a pochissime persone: l’affermazione ha un fondo di verità, perché tanto gli uomini quanto le donne hanno i loro match da tribune piene quanto quelli da tribune desolatamente vuote.

Cosa poter affermare, in sintesi?

È vero che il tennis maschile e quello femminile, per larga parte, differiscono. È altrettanto vero che gli Slam si giocano su distanze diverse per i due sessi (anche se, fuori dagli Slam, qualche tentativo di far giocare 3 set su 5 alle donne c’è stato). Non è invece vero che le donne si impegnino di meno: si allenano, fanno sforzi e viaggiano come e a volte con i loro colleghi maschi. Perché, allora, dovrebbero ricevere premi inferiori? Dopotutto, in linea generale, a fronte degli aumentati guadagni di entrambi i sessi si è creato un paradosso: le donne continuano a giocare 2 set su 3, mentre gli uomini hanno eliminato là dov’era possibile la formula dei 3 set su 5 (sono rimasti solo gli Slam, la Coppa Davis e la finale olimpica). Per tale ragione, i maschi hanno ben poco da pretendere, mentre le femmine hanno senz’altro ancora da reclamare un trattamento più equo.

Federico Rossini

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